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Birra cruda: è davvero preferibile alla birra pastorizzata?

Parlando di birra è facile sentir parlare di birra cruda o birra pastorizzata. Ma che significa? Tra le varie caratteristiche che servono a identificare e differenziare le varie tipologie esistenti, ce n’è una che risulta fondamentale anche per definire una birra come artigianale: una birra artigianale per essere chiamata tale deve necessariamente essere non pastorizzata. Ovvero, deve essere una birra cruda. Ma cerchiamo di fare subito chiarezza sulla distinzione tra queste due famiglie, definendo la differenza tra birra cruda e pastorizzata. Non solo, cerchiamo anche di capire perché, se parliamo con un intenditore della bevanda, ci dirà sicuramente che predilige la prima tipologia.

Cos’è la birra cruda? Perché è nata quella pastorizzata?

Inizialmente la birra era solo cruda. Ciò significa che veniva prodotta senza alcun tipo di trattamento volto ad allungarne la conservazione. Quando parliamo della tipologia di birra cruda, ci riferiamo quindi a un prodotto non trattato, con una scadenza più vicina, ma di qualità maggiore. Una birra cruda artigianale è per un amante di questa bevanda il massimo, l’apoteosi della birra stessa. I lieviti sono ancora vivi e la sua maggiore “delicatezza” la rende ancor più pregiata. Una volta pronta e uscita dal birrificio che la produce, una birra cruda può essere conservata (se rimane sigillata) al massimo un paio di mesi. Se viene aperta, invece, deve essere terminata non oltre tre giorni. Esistono infatti dei microrganismi, i lieviti citati prima, che vanno ad acidificare la bevanda dopo un breve periodo di tempo, così come accade per il vino. Tuttavia, è chiaro che, finché la produzione della birra è rimasta limitata, la questione legata alla conservazione non è stata di grande importanza. Il problema è nato quando la richiesta di birra è cresciuta, la produzione si è allargata e le birre, specialmente quelle con contenuto alcolico basso, “scadevano” troppo in fretta. C’era bisogno di un metodo che consentisse alla richiestissima bevanda di mantenersi buona per un lasso tempo decisamente più lungo. L’aiuto in questo senso venne dal famoso Louis Pasteur, chimico e microbiologo, che con i suoi studi scientifici nella seconda metà dell’Ottocento dimostrò che l’acidificazione di vino, aceto e birra potevano essere rallentati.

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Dalla birra cruda alla birra pastorizzata

Il processo di pastorizzazione è ormai divenuto utilizzatissimo dai produttori di birra, specialmente per quella in bottiglia, poiché come già detto consente di mantenere lo stato ottimale per mesi. Tale procedimento avviene durante la produzione, subito dopo l’imbottigliamento. La bevanda viene riscaldata per circa trenta minuti a una temperatura di più di 60 gradi centigradi, rimanendo comunque al di sotto della soglia di ebollizione. A differenza della birra cruda, la pastorizzata elimina il problema della proliferazione dei microrganismi responsabili dell’acidificazione. Quello che sicuramente risulta essere un processo di grande aiuto dal punto di vista della conservazione della birra, tuttavia, è un grande danno per gli intenditori della bevanda. Secondo il loro parere la pastorizzazione modifica drasticamente i sapori, gli odori e quindi mina la bontà della birra. Al contrario, la birra cruda ha un sapore articolato, ricco di tutte le sfumature che la caratterizzano.

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